In un momento in cui forse vorremmo davvero che le cose fossero scontate, anche per via del prezzo alto, altissimo pagato negli ultimi anni, abbiamo un modo di dire che sostiene diffusamente il contrario, non è scontato. Niente. E allora, pensiamo allo sport e alle sue presunte virtù. In fondo, parliamo di un’attività come un’altra, sopravvalutarlo o sottovalutarlo è un semplice errore cognitivo.
Quando è poco ammala. Quando è troppo lo stesso. E per spiegarcelo potremmo usare il verbo nella sua forma transitiva o intransitiva. Dipende da come vogliamo intendere il ruolo della persona, se preferiamo considerare l'individuo protagonista assoluto del suo modo di vivere, allora la forma intransitiva suona meglio. Ci si ammala. Se, invece, immaginiamo un agente passivo, parte di un sistema, quello di appartenenza, capace di costringerlo unicamente alla reazione piuttosto che all’azione, allora possiamo dire che lo sport ammala.
Perché dopotutto è normale, come ogni genere di attività può diventare controproducente, dannosa. E mentre la conseguenza della sedentarietà è un dato pressoché riconosciuto - parliamo da decenni dei tre gradi di obesità, mantenendo ferme alcune scelte comportamentali quotidiane soprattutto nel centro-sud del nostro Paese - sappiamo ancora troppo poco sulla vigoressia o bigoressia.
Nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) è definita come un disturbo dismorfico del corpo che scatena una preoccupazione per l’idea che il proprio corpo sia troppo piccolo o non abbastanza muscoloso. Qualcosa di molto simile all’anoressia a tal punto da descriverla agli inizi come una variante; poi si è capito che l’immagine della composizione muscolare costituiva un fattore distintivo.
La vigoressia è una condizione di salute di cui negli ultimi anni si parla in maniera emergente, un periodo in cui, al di là della pandemia, i numeri che riguardano i disturbi di ansia e depressione nella popolazione, sia generale che giovanile, sono aumentati. Collegare i fenomeni ci aiuta a definire delle ipotesi percorribili sia nel campo della ricerca che dell'intervento. E come non bastasse a definire un quadro in cui l’applicazione non può più essere demandata a chi è professionalmente sguarnito, i praticanti attività fisica sono diminuiti, di poco, ma il trend è al ribasso. E il dato sarebbe ancora più evidente, se escludessimo il numero dei giocatori di padel, che in un futuro non troppo lontano dovrà fare i conti con le prossime mode e quello che offrirà il mercato del momento.
Quindi, per arrivare al punto e capire come fare perché lo sport rappresenti un’occasione preziosa, piuttosto che il fulcro dell’ennesima spudorata strumentalizzazione, una prospettiva ce la può suggerire il punto trentasette della nuova Agenda 2030.
«Anche lo sport è un attore importante per lo sviluppo sostenibile. Riconosciamo il crescente contributo dello sport per la realizzazione dello sviluppo e della pace attraverso la promozione di tolleranza e rispetto e attraverso i contributi per l’emancipazione delle donne e dei giovani, degli individui e delle comunità, così come per gli obiettivi in materia di inclusione sociale, educazione e sanità».
Troppo aulico?
Forse sì. Ma per delineare una nuova tendenza che consenta di scegliere un modo diverso di interpretare lo sport, più funzionale e meno blasonato, bisogna dare dignità a un settore dal valore universale e favorirne uno sviluppo sostenibile. Quindi, rispettare la specificità delle persone nel loro ciclo di vita, l’educazione al movimento, e valorizzare quello che ne può derivare a livello sociale, culturale e ambientale. Poi, bisogna mettere a sistema la competenza, a volte invisibile, di quanti hanno scelto di fare del proprio meglio nello sport. Spesso, sono persone operose e instancabili che colgono le opportunità e si spendono per progetti a lungo termine.
L’educazione motoria, unitamente alle altre materie scolastiche, è di sicuro un buon esempio del cambiamento in atto: da quest’anno entrerà fino alle classi quinte delle scuole primarie. Ed è solo l’inizio di un processo destinato a coinvolgere tutti i bambini. Poco importa se ci vorrà del tempo perché l’evoluzione annunciata si completi, e se gli adulti nel frattempo se la devono sbrigare tra una valanga di promozioni e super promozioni. Dobbiamo adoperaci per riuscire a sostenere lo sport all’interno delle nostre vite, consapevoli da adulti che il perfezionismo, il senso di colpa, l’evitamento o il bisogno di controllo sono solo alcuni degli elementi che compongono la tendenza a polarizzare i nostri comportamenti. Se l’attività fisica che facciamo è troppa o troppo poca, allora non siamo ancora riusciti a ritagliarci il tempo e lo spazio davvero necessari. Ricordiamoci che la quantità è funzione di una qualità, frutto diretto della nostra salute mentale.
Idealmente, avremmo bisogno di immaginare dei modi più sostenibili per educare le persone e non solo una manciata di privilegiati. Interventi che dovrebbero sostenere un’equità sociale, tramite contesti e valori deputati al benessere delle comunità e dei singoli. Ma soprattutto abbiamo un dubbio amletico che ci resta da sciogliere. Desideriamo che lo sport d’élite si confermi un traguardo, partendo da interventi che possano avere un impatto su gruppi più ampi e differenziati o vogliamo una società nella quale solo un gruppo di eletti abbia accesso a uno sfizio?