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Se i conti non tornano

Lo sport ha un problema con la salute mentale, fisica e psicologica degli atleti, e non è una novità, ma non è neanche un dato da trascurare.
È piuttosto un problema che mi riporta alla mente "Più di un gioco", un libro sul basket, impossibile da archiviare. In un passaggio, Charley Rosen riferisce di aver imparato alcune cose nel lavorare con Phil Jackson, e ricordo due elementi particolarmente interessanti.
Primo, non esistono sostituti per l'esperienza e la maggior parte dei giocatori non è davvero in grado di capire il gioco finché non arriva a ventisei anni o giù di lì.
Secondo, fare l'allenatore di basket può danneggiare la salute mentale, fisica e psicologica di un individuo.
Per quanto mi riguarda, non ho alcuna pretesa di anticipare dove ci porterà l’intento di potenziare le abilità degli atleti né tantomeno di giudicare l’intervento della tecnologia a riguardo, anche se ne prendo atto quotidianamente.
Lo sport, in quanto attività fisica di vario genere, ha una sua funzione che è quella di mettere l’individuo nella condizione di esprimere e quindi migliorare la sua condizione fisica e psichica, di sviluppare rapporti umani e di ottenere risultati a vari livelli.
Allo stesso tempo, però, rappresenta un settore capace di influenzare l’economia di un Paese.

Penso al tentativo di migliorare la salute globale da parte di enti pubblici e privati e al recentissimo protocollo di intesa siglato tra l’Organizzazione mondiale della sanità e la Federazione mondiale dell’industria degli articoli sportivi, rivolto appunto ad incentivare l’attività fisica della comunità.
Questa, insieme ad altre, è un esempio di partnership vantaggiosa per tutti. E, infatti, pone al centro delle organizzazioni degli obiettivi fortemente ambiziosi che riguardano temi come: la forza lavoro in ambito sportivo, le disuguaglianze per le persone che vivono con disabilità, l’uso di innovazioni digitali per incoraggiare la maggioranza a muoversi di più, e l’accesso facilitato all’educazione fisica, con un’attenzione particolare per bambini, giovani e donne.
Inutile nascondere che stiamo immaginando società ricche e teoricamente progredite, in cui i ragionamenti chiamano in causa capitali e imprese importanti. Consideriamo per un attimo lo sport italiano: facciamo riferimento a un fatturato diretto di oltre 4 miliardi di euro, a quasi 40mila lavoratori impiegati e a oltre 15mila imprese nel settore della gestione di impianti e attività.
Quindi, rimanendo in Italia, il fatto che non manchino i grandi campioni si presta ad una lettura meno aulica di quella che, forse, ci piace dare. A dispetto di ogni possibile forma autocelebrativa, negli ultimi decenni la nostra visione dello sport si è adattata ai tempi, monetizzando una fetta consistente del settore stesso. E così, la prospettiva del successo da raggiungere è entrata in un sistema di ricompensa che sta schiacciando l’individuo da angolature sempre diverse, in un crescendo di pressioni incontenibili. Basti pensare alle tempistiche di sviluppo del talento e all’età media di accesso all’agonismo che si aggira intorno agli undici anni, e va da sé che il prezzo più alto in un meccanismo così congegnato sia a carico dei giovani.
Eppure, il colmo non è nemmeno questo.
Se da un lato l’Oms stima che i sistemi sanitari pubblici spendono circa 27 miliardi di dollari l’anno per curare malattie non trasmissibili, che potremmo prevenire aumentando l’attività fisica, dall’altro ci sono atleti di alto livello che interrompono la loro carriera a causa delle stesse malattie. I disturbi mentali, come le malattie cardiovascolari, il cancro, il diabete e le malattie respiratorie croniche, tendono a essere di lunga durata e sono il risultato di una combinazione di fattori genetici, fisiologici, comportamentali e ambientali.
Quindi è evidente che c’è in ballo la nostra capacità di allineare il sistema con il significato ultimo di quello che siamo portati a fare, ampliando la centratura sulle singole discipline sportive, le prestazioni e la necessità di raggiungere dei risultati.
Non per niente, ci resta ancora un arcano da risolvere.
Il campionato di calcio è agli sgoccioli, la squadra del Napoli ha giocato una stagione encomiabile, la tifoseria è tra le più numerose e partecipative, eppure secondo il report 2022 di Openpolis, in Campania i bambini e i ragazzi tra 3 e 17 anni che praticano sport nel tempo libero corrispondono al 41,4%, il 30% in meno della media nazionale e quasi la metà della Valle d’Aosta.
I conti non tornano. Perché?