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Mentre gli esami di maturità proseguono il loro consueto decorso, gli studenti coinvolti si dispongono ad attraversare una fase critica della loro crescita. E non tanto, e non solo per la valenza emotiva della prova in ballo che poi è soggettiva, quanto per gli sviluppi attesi e le decisioni da prendere. Soggettive anche quelle, ma anzitutto ineludibili. Perché si sa, anche non decidere è una scelta.
E così, fermo restando che il diritto allo studio a 18 anni è una questione chiusa, per molti, ma non per tutti, l’Università diventa comunque una finestra aperta sul mondo. E in questo caso, come per ogni situazione di vita, solo a determinate condizioni, che non sono nemmeno unicamente dettate dall’impiego che uno studente poi farà delle competenze tecniche apprese.
C’è molto altro.
I fattori da considerare sono numerosi, e sostengono, ad esempio, l’eterno sforzo di cominciare a percepire un senso di coerenza nella propria vita. Mentre i mezzi necessari per costruire il futuro fanno incessantemente capo alla conoscenza, che rappresenta l’elemento base attraverso cui delineare una prospettiva di cambiamento. La stessa entro cui inserire il binomio creatività/innovazione a cui ha fatto riferimento il maturando tipo, che ha scelto la traccia di Piero Angela, per realizzare la prova di italiano.
La curiosità di sentire cosa abbia scritto un giovane in risposta a uno stimolo dalle versioni variopinte è tanta, soprattutto per me che esattamente un anno fa proponevo una traccia, parzialmente profetica, che abbinava sport, creatività e futuro. Ma se, invece, ci soffermiamo sul punto di contatto tra istruzione di base e formazione professionale, allora il tema dell’equità e della qualità dell’istruzione diventa centrale e si staglia prepotente nel corso di un apprendimento continuo, lungo l’intero ciclo di vita professionale.

Quindi la questione diventa onnicomprensiva, e persino chi si vede riconosciuto lo status di “studente-atleta” è parte di un sistema rivolto ad affermare i presupposti necessari perché a ciascuno venga garantita un’istruzione di qualità equa ed inclusiva. Per cui, sorvolando sulle specificità dei diversi Atenei proponenti il programma “dual-career”, lo “studente-atleta” dovrebbe riuscire, per esempio, a smarcare sentimenti di compiacenza, senso di opportunità o mancanza di autoregolazione, in favore di un’apertura mentale e di una strategia decisionale rispettosa e rispettante di sé stesso, degli altri e del futuro.
E se nel frattempo la regola della proprietà commutativa non è cambiata, per controllare gli effetti auspicabili di una qualsiasi “dual-career”, abbiamo un semplice interrogativo al quale rispondere: potrebbe funzionare il programma contrario? Intendo dire, potrebbe uno studente eccellente approcciare lo sport con le stesse modalità previste per un atleta d’élite nei riguardi dello studio? Se sì, questo punto di vista si autodistruggerà tra cinque secondi, come nei migliori film della saga Mission impossible. Se no, sarebbe interessante vagliare le possibili controindicazioni ed aprire a una missione concettuale. Quella di favorire l’accesso a un’istruzione di qualità per tutti, anche grazie al settore sportivo, con l’obiettivo di migliorare fattivamente lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese.
La questione dei sistemi e dei processi educativi è di assoluto rilievo per qualsiasi istituzione, perché attiene alla formazione dell'individuo e quindi della collettività: i responsabili sanno che il modo migliore d'impegnarsi è essere coerenti con ciò che viene scritto, sostenuto e promosso. Viceversa, è sufficientemente inutile declamare ciò che non si mette in pratica. Credo che alcuni programmi non siano adeguati rispetto a quanto viene richiesto agli studenti di argomentare, com’è stato per la traccia sulla creatività. Naturalmente solo alcuni, non sto parlando dei programmi in generale, ma coglierne le criticità e prospettare delle soluzioni è compito precipuo degli specialisti. Gli stessi che hanno l’onere di tradurre fedelmente principi e obiettivi condivisi in buone pratiche, attraverso la salvaguardia da un lato del valore educativo dello sport e dall’altro di un’élite, comprese le conseguenze di una scelta di lavoro quantomeno complessa - perché è di questo che stiamo parlando -.