Più di un anno e mezzo fa accennavo alla prospettiva di vedere lo sport entrare nella Carta Costituzionale italiana ed esprimevo tra le righe alcune perplessità augurandomi comunque che fossimo parte di un cambiamento in atto.
“Siamo vicini a stabilire che lo sport non è tanto il luogo dei talenti da mostrare, quanto un contesto in cui performare è la conseguenza piuttosto che la causa di una scelta autonoma e consapevole.” Sono questi i termini che descrivevano una parte del mio ragionamento di quei mesi. Pur con una serie di accadimenti più o meno rilevanti, alla fine il dato aggiornato è che anche la nostra Costituzione riconosce lo Sport dandogli una sua collocazione: l’Art. 33, in cui si parla di Arte e Scienza. Dico anche, perché ci sono 9 ordinamenti dell'Unione europea che prevedono la cosa già da anni. Ma al di là dei dettagli. Il dato oggettivo è che adesso in Italia, contesto in cui la cultura sportiva stenta ad affermarsi, la Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme.
È difficile anche solo ipotizzare i possibili risvolti di un passaggio simile, il ventaglio è ampio e la questione è complessa. Però un collegamento ci tengo a farlo, giusto per inquadrare l’impegno degli stakeholders prima e dopo un cambiamento, a detta di qualcuno epocale, e considerare i livelli di ragionamento a cui ci dovremmo prestare per rendere quantomeno il tutto più credibile.
Ho visto Oppenheimer al cinema. È stato uno spunto di riflessione enorme sull’impegno dell’individuo, sulle scelte umane e sull’utilizzo distorto della scienza e della tecnologia da parte della politica. Non posso non ragionare a cavallo tra l’ascolto degli interventi in Aula del 20 settembre 2023, giorno in cui è terminato l’iter legislativo per inserire lo sport in Costituzione, e quello che è accaduto a Robert Oppenheimer, fisico passato alla storia come “il padre della bomba atomica”, interpretato nel film dall’attore irlandese, Cillian Murphy.
Ebbene, per quanto oggigiorno la ricerca abbia il compito e la responsabilità di fornire gli strumenti per prendere decisioni informate, nel parlare di sport sembra diventare un settore trascurabile.
Ho sentito alternarsi i diversi esponenti politici e nessuno di loro ha sottolineato abbastanza il valore dell’innovazione, della creatività, della trasformazione digitale e, appunto, della ricerca. Come se nello sport, alla base del talento, ci fosse sempre e solo un’infinità di soggetti non ben definita, altrimenti detta una schiera di volontari che fatalmente si sostituisce a qualsivoglia ragionamento di senso compiuto.
In molti, dentro e fuori la Camera dei deputati, ritengono che a questo punto sia cruciale il tema degli investimenti, ma il lavoro che svolgo mi suggerisce che lo sport ha bisogno di un contesto prima ancora che di denaro.
Il settore sportivo ha un vantaggio ineludibile: l’essere umano ha bisogno di muoversi. Per cui declamare a priori tanta fiducia nel sistema è al limite dell’ipocrisia. Quello che bisogna fare è prendere atto dei tempi lunghi, necessari per instaurare relazioni di cooperazione intersettoriali e fronteggiare l’elevata complessità delle prestazioni da offrire. Pertanto torna puntale il tema della competenza, all’interno del quale l’etica del lavoro e la deontologia professionale diventano garanzia di un impegno e di un investimento costanti e incondizionati.
Senza arrivare ad Oppenheimer, che si è trovato a fare i conti con una crisi di coscienza ai limiti dello sfinimento, credo che sostenere il riconoscimento dei professionisti del settore sportivo resti il nodo cruciale per la messa a terra del nuovo comma dell’Art. 33 della nostra Costituzione. E se così non fosse, potremmo aver fatto tanto rumore per nulla. Tuttavia, al momento resta un dubbio: è meglio decidere per innovare o innovare per decidere?