Il troppo che stroppia svela l’essenziale
In un momento in cui forse vorremmo davvero che le cose fossero scontate, anche per via del prezzo alto, altissimo pagato negli ultimi anni, abbiamo un modo di dire che sostiene diffusamente il contrario, non è scontato. Niente. E allora, pensiamo allo sport e alle sue presunte virtù. In fondo, parliamo di un’attività come un’altra, sopravvalutarlo o sottovalutarlo è un semplice errore cognitivo.
Quando è poco ammala. Quando è troppo lo stesso. E per spiegarcelo potremmo usare il verbo nella sua forma transitiva o intransitiva. Dipende da come vogliamo intendere il ruolo della persona, se preferiamo considerare l'individuo protagonista assoluto del suo modo di vivere, allora la forma intransitiva suona meglio. Ci si ammala. Se, invece, immaginiamo un agente passivo, parte di un sistema, quello di appartenenza, capace di costringerlo unicamente alla reazione piuttosto che all’azione, allora possiamo dire che lo sport ammala.
Perché dopotutto è normale, come ogni genere di attività può diventare controproducente, dannosa. E mentre la conseguenza della sedentarietà è un dato pressoché riconosciuto - parliamo da decenni dei tre gradi di obesità, mantenendo ferme alcune scelte comportamentali quotidiane soprattutto nel centro-sud del nostro Paese - sappiamo ancora troppo poco sulla vigoressia o bigoressia.
Nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) è definita come un disturbo dismorfico del corpo che scatena una preoccupazione per l’idea che il proprio corpo sia troppo piccolo o non abbastanza muscoloso. Qualcosa di molto simile all’anoressia a tal punto da descriverla agli inizi come una variante; poi si è capito che l’immagine della composizione muscolare costituiva un fattore distintivo.