Quando arriva il momento in cui perdi
Per diverse ragioni è la prima volta dopo tanti anni, forse una decina, che non seguo gli Australian Open. Eppure oggi mi sono messa a selezionare l’argomento su cui avrei espresso il mio punto di vista e una volta scartata la controversia tra Sport e Salute e CONI, ho deciso che sì, avrei scritto della vittoria di Djokovic su Medvedev in finale a Melbourne.
Per farlo sono andata a ritroso. Ho approfondito come si è svolto il torneo, il tabellone, alcune curiosità, gli highlights degli ultimi match, e così ho finito per focalizzarmi sulle capacità con cui Djokovic ha messo fuori gioco l’avversario. In tutto questo giro, quello che ho capito meno è stato il dispiacere di Roberta Vinci e il disappunto di altri per l’atteggiamento di un giovane Medvedev che arrivato in fondo ad uno Slam si è ritrovato anche costretto a dimostrare di avere carattere senza potersi permettere di uscire dal match e di sbagliare. Che poi, si sa, sono le partite di questo genere l’atout per affermarsi come uno stratega consistente. E allo stesso tempo, sono i problemi non risolti al momento necessario a stimolare quella creatività irrinunciabile che potrebbe completare un giocatore.
Credo che il dato di fatto sia molto più semplice di quello che si vuole far credere.
Djokovic è un adulto di 33 anni, con una competenza acclarata e una consapevolezza di sé e dei propri limiti, che lo rende umile e anche solo per questo un vincente.
Medvedev è un giovane di 25 anni, sbarcato a Melbourne con 20 vittorie di fila addosso (12 delle quali con dei Top 10), e un bisogno continuo di controbilanciare il sistema di ricompensa con una capacità di controllo cognitivo di recente conquista.